Il saggio di Michele Gelardi, “La presunta superiorità antropologica dei comunisti”, con la bellissima prefazione dell’onorevole Giuseppe Basini, ricco di dotti richiami e riferimenti, affronta lo studio del comunista, sotto il profilo culturale e antropologico. La pretesa del comunismo di coniugare giustizia e libertà ha fallito entrambi gli scopi, riducendo l’uomo al ruolo di suddito, amputato delle sue libertà economiche e civili e distribuendo, equamente, solo bisogno e povertà.
Il diritto alla ricerca della felicità, attraverso la libera iniziativa personale, è scolpito nella Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti del 1776 e incarna lo spirito della democrazia americana. Un diritto naturale che, invece, i nostri costituenti, intimoriti dai cofondatori del Partito comunista italiano, trovarono difficoltà a incorporare pienamente, nell’articolo 3 della carta fondamentale.
Per il liberale, il liberalismo è metodo e non ideologia, mentre per il comunista solo l’ubbidienza cieca a quest’ultima consente di superare le contraddizioni con le quali si trova costretto a confrontarsi, di volta in volta, nella realtà. Così, se il dogma, che egli ha fatto proprio, lo porta a rifiutare la naturale affermazione del privato, egli non trova umiliante piegarsi, invece, al sopruso proveniente da uno Stato che vuole pianificare, a proprio arbitrio, la sua vita economica, di relazioni e di umano sviluppo, dalla culla fino all’ultimo giorno. Perché se lo statalista è spesso comunista, il comunista è, invece, sempre statalista.
Nel saggio emerge anche il tratto antropologico – o psicologico – del comunista che guarda con riprovazione la ricchezza (l’invidia, consolazione dei mediocri) e, con sospetto, la potenza espressiva della libertà economica in mano all’individuo.
Il suo giustizialismo si manifesta con asimmetrico doppiopesismo – rispetto al soggetto verso cui è rivolto – perché la stella polare a cui si ispira non è l’impianto di norme positive ma quel groviglio di rapporti economici ed etici che caratterizza il suo credo. Il diritto, infatti, nella sua ottica deformata, deve essere univoca espressione del dato materiale posto dall’ideologia.
Il comunista non trova imbarazzo a condonare atti contrari alla legalità se, chi li compie, appartiene a quei gruppi o categorie verso i quali, egli ritiene, la società sia in debito: perché la colpa non è degli autori ma della società che ha fallito nel proprio dovere di integrarli o provvedere ai loro bisogni.
Alla società egli attribuisce molte altre colpe: le vere o presunte ferite “antropiche” all’ambiente, le vere o presunte espressioni discriminatorie di genere, etnia o religione, le diseguaglianze tra i due emisferi, la fame nel mondo, i genocidi, le persecuzioni, i torti e le violenze inferte, oggi e nei secoli, ad opera di dittatori, sfruttatori, colonizzatori o schiavisti.
Tutti questi, nella sua opinione, non possono non risiedere ancora, indelebili e imperdonabili, nella coscienza dell’uomo contemporaneo se pure non vi abbia preso parte. Alimentando quell’obbligo del senso di colpa per il quale non si può perseguire la propria felicità o il proprio benessere quando ad altri, in altri tempi o luoghi, essi siano stati negati.
Paradossalmente, le democrazie occidentali che concentrano la più alta densità di libertà civili ed economiche, secondo lui, dovrebbero vergognarsi di esaltare i propri valori a confronto di quelli di nazioni e culture che sono, invece, teatro delle più gravi violazioni di diritti e abusi contro l’umanità. E verso i quali il comunista mostra, sempre, una sorprendente distrazione e indulgenza.
La deformazione ideologica, porta il comunista ad assumere due atteggiamenti complementari: ergendosi a giudice e giuria di questa – secondo lui – distopica società, egli si autoesclude e autoassolve dalla pretesa corresponsabilità che egli invoca per gli altri. E, per dichiarare, in modo più plateale – e forse infantile – la propria dissociazione da essa, pretende la censura di, pur legittime, parole del nostro vocabolario e l’oscuramento del dissenso che egli bolla come fake news. La furia iconoclasta del comunista si estende fino alla pretesa di abbattere gli artefatti di epoca fascista, come se, cancellando questi, si potessero raddrizzare le pagine storte della Storia. In questo comportandosi come i talebani che, non ammettendo l’esistenza di civiltà anteriori alla nascita del profeta, hanno distrutto o danneggiato irreparabilmente, preziose millenarie vestigia delle civiltà (quelle sì) che li hanno preceduti.
Potrei continuare ma non vorrei privarvi del piacere di approfondire direttamente l’argomento nelle pagine dell’appassionante e appassionato saggio che ho comprato su Amazon. Buona lettura.